Il mio contributo parte dalla constatazione, “sulla mia pelle” di ex-paziente, che se le condizioni fisio-psichiche della persona lo consentono, anche il lavoro può appartenere al percorso di cura. Ma deve essere un rientro in azienda in salute e sicurezza, inclusi i tempi e i luoghi di lavoro.
Da qui l’importanza degli strumenti giuridici di conciliazione e inclusione per le lavoratrici e i lavoratori che presentano sia condizioni di fragilità per ragioni di salute (quali i malati oncologici), sia il ruolo di caregiver familiare. Tra questi ho scelto di occuparmi di una nuova modalità di lavoro, definita dal legislatore “agile”
(o smart working), che permette l’effettuazione di una modalità ibrida di lavoro subordinato: con una flessibilità di luogo (in parte dentro, in parte fuori l’azienda) e di orario di lavoro. Purtroppo il legislatore prevede una tutela a geometria variabile: per i soli lavoratori dipendenti, con una tutela debole per i lavoratori fragili: una mera priorità di accesso al lavoro agile (legge n. 81 del 2017) se ed in quanto il datore di lavoro intenda attivare una prestazione di lavoro agile. Inoltre il lavoratore disabile (l. n. 68/1999) potrebbe richiedere il lavoro agile quale “accomodamento ragionevole”.
Ben più significativa è l’eredità del periodo pandemico che prevede (con una regola a scadenza: solo fino al 31 dicembre 2023) un vero e proprio diritto largo allo smart working ma per i (soli) lavoratori super-fragili (di cui al decreto 4 febbraio 2022). Sarebbe opportuna una stabilizzazione ed estensione della sperimentazione pandemica.